Dialoghi con Gabriele, tra verità scomode, sistemi di potere e il tracollo annunciato di una civiltà che non sa più distinguere la conoscenza dalla convinzione
Ogni volta che parlo con Gabriele, mi trovo a camminare su un filo teso tra provocazione e verità. Lui lancia frasi come lame, senza cercare l’effetto spettacolare, ma per colpire dritto alla radice. E una di queste, ultimamente, mi è rimasta in testa:
“Il mondo è diviso in due tipi di persone: quelli che sanno come funziona il mondo e quelli che credono di saperlo. I primi sono meno dell’1% della popolazione mondiale, quelli che prosperano in libertà; i secondi sono tutti gli altri, quelli che possono ambire solo alla sopravvivenza, in condizioni sempre più precarie e disagiate.”
Ho provato a metterla in discussione. A smontarla. Ma ogni tentativo si è infranto contro la realtà che ci circonda. Una realtà fatta di diseguaglianze crescenti, di miliardi di persone che vivono in reazione, rincorrendo ruoli imposti da altri, e di una minuscola parte di umanità che invece quei ruoli li scrive, li distribuisce, e soprattutto li comprende.
Secondo Gabriele, non c’è più tempo per le sfumature. E io comincio a credergli. Perché ogni sfumatura oggi sembra solo un modo elegante di rimandare la verità, o peggio, di anestetizzarla. Le democrazie hanno imparato a vendere tolleranza e inclusione come fossero valori assoluti, ma spesso si rivelano solo strategie comunicative per mantenere il consenso.
Quando Gabriele dice che “una società che non sa proteggere ed educare i bambini è una società destinata a fallire”, non sta parlando da idealista. Sta descrivendo una traiettoria in atto. E il fallimento, in fondo, non è altro che l’esito logico di un sistema che ha perso il contatto con la propria verità strutturale.
Il nostro dialogo non si chiude mai con una risposta. Ma ogni volta si apre uno spiraglio. Una domanda nuova. Una verità più cruda. E forse è questo il senso di ascoltare chi, come lui, ha deciso di stare dalla parte scomoda del sapere.
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